Lunedì 3 marzo 2025, l’ISTAT ha reso noto un report dettagliato riguardante la situazione economica dell’Italia, concentrandosi in particolare sull’andamento del PIL (Prodotto Interno Lordo) e sul debito pubblico. I risultati presentano un quadro contrastante: se da un lato si registrano segnali positivi per gli equilibri di finanza pubblica e il bilancio dello Stato, dall’altro la crescita economica appare meno incoraggiante.
La relazione conferma l’efficacia della gestione fiscale del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, il quale ha adottato un approccio prudente, contraddicendo le narrazioni precedenti della destra. L’Italia, al momento, sta seguendo un percorso virtuoso, più rigoroso rispetto a quanto concordato con la Commissione Europea riguardo alla riduzione della spesa pubblica e del deficit, sebbene il debito pubblico continui ad aumentare in modo preoccupante.
Tuttavia, emergono anche i limiti di questa politica, in particolare per quanto riguarda il sostegno agli investimenti, che sono principalmente legati all’attuazione del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Questo spiega la scarsa vitalità dell’economia, con prospettive di crescita del PIL sempre più negative. L’ISTAT ha inoltre certificato un aumento della pressione fiscale, un dato problematico per il governo di Giorgia Meloni, che ha fatto della riduzione della pressione fiscale una delle sue priorità.
Nel 2024, il PIL italiano ha registrato una crescita dello 0,7%, inferiore di tre decimi rispetto alle stime ufficiali del governo contenute nel Piano Strutturale di Bilancio di settembre. Sebbene la variazione non sia allarmante, essa genera incertezze per il 2025, anno per il quale il governo prevede una crescita dello 0,8%. La revisione al ribasso dei dati del 2024 rende difficile raggiungere gli obiettivi di crescita per il 2025, il che potrebbe comportare squilibri nella finanza pubblica.
Nonostante il rallentamento dell’economia, si osserva una diminuzione più marcata del deficit. Il governo aveva concordato con la Commissione Europea un disavanzo del 3,8% nel 2024, in calo rispetto al 7,2% del 2023. Secondo l’ISTAT, il deficit si attesta invece al 3,4%, un dato sorprendente che sfida le aspettative, poiché di solito un calo della crescita porta a un aumento del disavanzo. In questo caso, la riduzione della spesa pubblica ha avuto un impatto maggiore rispetto a quanto previsto.
Nel 2024, le uscite totali delle pubbliche amministrazioni hanno raggiunto il 50,6% del PIL, corrispondenti a poco più di mille miliardi di euro, con un calo del 3,6% rispetto all’anno precedente. Questo è dovuto principalmente alla sospensione dei contributi per il Superbonus, le agevolazioni per la ristrutturazione e l’efficientamento energetico degli immobili, introdotte dal governo di Giuseppe Conte. La riduzione della spesa per investimenti è stata notevole, con un calo del 72,9%, mentre la spesa corrente ha visto un incremento del 3,9%, principalmente a causa dell’inflazione.
Il saldo primario, ovvero la differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi sul debito pubblico, mostra un miglioramento. Contrariamente a quanto affermato da Meloni in parlamento il 17 dicembre 2024, l’Italia non era in avanzo primario da quattro anni. Nel 2024, il bilancio è tornato in attivo, con un avanzo primario dello 0,4% del PIL, superiore alle previsioni iniziali.
Il dato più critico per il governo riguarda la pressione fiscale, che rappresenta un indicatore chiave per valutare l’andamento delle tasse. Fratelli d’Italia e la coalizione di destra avevano fatto della riduzione della pressione fiscale un punto centrale del loro programma elettorale nel 2022. Tuttavia, i dati ufficiali mostrano che nel 2024 la pressione fiscale è aumentata al 42,6% del PIL, superiore al 42,3% previsto dal ministero dell’Economia. Questo incremento di 1,2 punti rispetto al 2023 e di 0,9 punti rispetto al 2022 ha sollevato preoccupazioni politiche.
L’aumento dell’IRPEF e dell’IRES ha contribuito a un incremento delle imposte dirette del 6,6%, mentre le imposte indirette sono salite del 6,1%. Questi dati sollevano interrogativi sulla capacità del governo di mantenere le promesse elettorali riguardanti la riduzione della pressione fiscale, in un contesto economico già fragile.