La Germania, nel 2025, si trova a fronteggiare una crisi economica profonda, segnata da un evidente stagnamento e recessione. Questa situazione ha sorpreso molti osservatori, considerando che la nazione è da lungo tempo riconosciuta come la più solida economia industriale del mondo. Negli ultimi anni, la crescita della produzione ha subito un netto rallentamento: dal 2% annuo registrato tra il 1980 e il 2000, si è passati a un modesto 1% nel periodo 2000-2014 e a un ulteriore calo dello 0,8% successivamente, culminando in una recessione nel biennio appena trascorso.
La domanda interna tedesca ha mostrato segnali di stagnazione, con consumi, investimenti e spesa pubblica in calo. Questo ha portato a un surplus nella bilancia dei pagamenti correnti, che ha oscillato tra il 7% e il 9% del PIL nell’ultimo decennio, un valore ben oltre le indicazioni europee. Tuttavia, questo surplus non è frutto di una competitività migliorata del prodotto “made in Germany”, ma piuttosto di un risparmio nazionale che ha superato l’accumulazione di capitale di 6-8 punti percentuali del PIL. Gli investimenti limitati hanno causato una crescita della produttività del lavoro inferiore rispetto al passato, mentre l’occupazione è aumentata per mantenere il medesimo livello di produzione. Negli anni 2000, i salari reali sono aumentati solo dello 0,5% annuo, nonostante il tasso di disoccupazione fosse sceso al 3,5%, rispetto al 9% medio tra il 1997 e il 2007.
La mancanza di un adeguato sostegno della politica economica ha contribuito a questa stagnazione. Se il governo avesse promosso una politica più attiva a favore della domanda interna, si stima che l’economia avrebbe continuato a crescere del 2% annuo. Nel frattempo, il saldo del bilancio pubblico è passato da un disavanzo medio del 2,6% nel periodo 1997-2007 a un avanzo dell’1,9% nel 2018, riducendo il debito governativo dal 80% del PIL nel 2012 al 64% attuale. Questo è stato ottenuto anche attraverso una drastica riduzione degli investimenti pubblici, che sono scesi dallo 0,5% del PIL a zero. Le infrastrutture, di conseguenza, hanno subito un deterioramento, come dimostra il crollo del Carolabrücke di Dresda nel 2024.
La teoria keynesiana, espressa nella sua opera del 1936, sottolinea l’importanza degli investimenti in infrastrutture per stimolare l’economia. Keynes affermava che tali investimenti avrebbero aumentato l’occupazione e la produttività, autofinanziando la spesa iniziale e riducendo il debito pubblico attraverso un maggiore gettito fiscale. Tuttavia, la Germania ha adottato un approccio diametralmente opposto, imponendo misure di austerità anche agli altri membri dell’Unione Europea. Questa impostazione ha portato a un aumento delle tensioni sociali, evidenziato dal disertare degli operai dalla SPD, delusi da salari inadeguati e da una crescente insoddisfazione per la situazione economica.
Le recenti elezioni hanno evidenziato il malcontento della popolazione. Gli operai, delusi dalle politiche economiche, hanno abbandonato il partito socialdemocratico, mentre la destra reazionaria ha guadagnato terreno, con un elettorato che ha visto un’affluenza dell’85% ai seggi. Le disparità economiche tra Germania orientale e occidentale si sono ampliate, con il reddito medio pro capite nell’Est che si attesta a meno del 60% rispetto a quello dell’Ovest. Questo ha alimentato sentimenti nostalgici e una crescente inclinazione verso posizioni di destra.
La classe dirigente tedesca, da Angela Merkel a Olaf Scholz, ha affrontato questa crisi con scelte politiche discutibili. Due principali ipotesi emergono per spiegare questa situazione. La prima è di natura culturale: una mancanza di comprensione delle teorie keynesiane da parte dell’intellighenzia tedesca, che ha preferito seguire pensatori conservatori. La seconda ipotesi è geopolitica: i dirigenti hanno frenato la domanda interna per mantenere un surplus commerciale, portando a perdite significative su crediti esteri. Queste scelte hanno avuto un costo economico e politico elevato, evidenziando il prezzo del neomercantilismo tedesco.